autostima

Autostima, scelte, cambiamenti

Autostima, scelte, cambiamenti

“Mi è impossibile decidere”…“Vorrei cambiare delle cose nella mia vita ma non ci riesco”…“Sono una persona insicura”…”Gli altri vanno avanti nella vita ed io mi sento al palo, immobile”… “Ho paura di vedermi/di essere vist come inadeguat”.
Negli ultimi anni il numero di persone che accede ad una consultazione clinica portando temi simili a quelli sopra è cresciuto a dismisura.
Nella maggior parte dei casi le persone chiedono di poter guadagnare in terapia un livello più alto di autostima.

La trappola dell’autostima

Negli ultimi anni nella nostra cultura è diventato una sorta di mantra collettivo: per essere felici e soddisfatti dobbiamo coltivare un’alta autostima. Noi Terapeuti ne sponsorizziamo da anni i supposti benefici, gli insegnanti a scuola sono impegnati come collettività educativa ad incentivarla, i genitori sono preoccupati dal restituire ai loro figli sempre una immagine positiva di se stessi.

Eppure, mai come oggi non importa quanto ci impegniamo, quanti risultati conseguiamo, quanto siamo riconosciuti come bravi lavoratori, come bravi genitori, come bravi partner- la sensazione è di non essere mai abbastanza. C’è sempre qualcuno più bravo, più ricco, più giovane, più bello, più magro, più potente. Qualcuno che ci fa sentire piccoli ed inadeguati in un confronto sempre in perdita.

La nostra cultura è diventata così tanto competitiva che per sentirci bene con noi stessi dobbiamo sentirci meglio degli altri, speciali, perfetti. Così alcuni imparano a sminuire e ad umiliare gli altri per sentirsi meglio di loro, altri si autocriticano in continuazione per evitare che lo facciano gli altri.

Il fallimento, piccolo o grande, si rivela essere una esperienza emotivamente inaccettabile per tantissime persone non importa quanto ci si dica che sbagliare è parte dell’esperienza, e che solo gli errori possano portare ad un miglioramento. Da qui per molti la difficoltà nell’entrare in contatto con esperienze di vita quali scelte, decisioni, cambiamenti nel proprio status quo che inevitabilmente mettono in contatto con la inevitabile possibilità di prendere decisioni sbagliate verso le quali poi poter avere rimpianti o rimorsi.

Il problema con l’autostima è che essa, come implica il nome stesso, ha a che fare con una valutazione di sè in termini prestazionali e di giudizio – negativo o positivo che sia.

Per mantenere l’autostima alta dobbiamo performare bene sempre, in un continuo paragonarsi con gli altri alzando l’asticella delle nostre aspettative e dei nostri risultati. Quando l’autostima scende perchè, come spesso può accadere, abbiamo fallito o non ci siamo dimostrati all’altezza delle aspettative la parte autocritica della nostra mente si accende, facendoci sentire profondamente incapaci in una continua montagna russa emotiva piena di ansia, di depressione, di solitudine.

La mente valutativa

Paragonarci agli altri in continuazione, in meglio o in peggio, è una esperienza estremamente dolorosa e che non può mai farci sentire davvero felici perchè, potenzialmente, il confronto con altri non ha mai fine.

Alla radice della mente valutativa c’è una emozione spesso misconosciuta alle persone : la vergogna che di per sé non è altro che un tipo particolare di paura.

La vergogna è dappertutto. Non è solo quando violiamo una norma o facciamo qualcosa di disdicevole, come spesso si pensa invece. Ogni volta che pensiamo qualcosa di negativo su noi stessi, stiamo provando un pizzico di vergogna. La vergogna è quando ci sentiamo giudicati da qualcuno, o ci aspettiamo di essere giudicati negativamente. La vergogna ha a che fare con il sistema di appartenenza sociale al gruppo, e con il timore di essere rifiutati ed estromessi per qualcosa di noi che non piace agli altri.

Autostima o autocompassione?

Se l’autostima attiva continuamente la parte valutativa ed autocritica della mente che vuole a tutti i costi minimizzare il pericolo di non essere all’altezza della situazione, l’autocompassione non pone enfasi sui risultati o sulla bravura. Dal punto di vista etimologico la parola compassione deriva dal latino “cum patior”, ossia provare dispiacere con qualcuno.

“Compassione è l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili; di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali; di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore; e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé” (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).

Il concetto di compassione deriva dalle discipline meditative orientali ed è strettamente intrecciato con la Mindfulness.

Implica un addestramento allo sviluppo di una mente saggia che possa imparare a guardare a se stessi in ogni momento con un atteggiamento curioso, disponibile e non giudicante.
Essere compassionevoli significa prima di tutto fare i conti con l’imperfezione collettiva della natura umana.

Essere compassionevoli verso di sè significa imparare a trattare se stessi nel modo in cui si tratterebbe un amico quando le cose non vanno come si vorrebbe, di fronte ad un fallimento o di fronte ad aspetti che di noi non ci piacciono al posto di essere critici o disprezzanti.

Essere compassionevoli non significa però essere nè autocommiseranti nè autoindulgenti.

Quando ci autocommiseriamo tendiamo ad essere immersi nei nostri problemi, ad ingigantirli ed a sentirci gli unici sofferenti. L’autocommiserazione tende ad isolare l’individuo enfatizzandone il punto di vista e fa dimenticare che anche altri possono provare ciò che noi proviamo. Al contrario la mente compassionevole riconosce la realtà per quella che è, può tollerarne la spiacevolezza e può collocarla all’interno di un quadro più grande all’interno del quale quella emozione dolorosa può essere provata anche da altri e non soltanto da me, diminuendo il senso di diversità e di solitudine che spesso chi vive fuso con la propria mente giudicante prova in continuazione.

Essere compassionevoli verso di sè non significa nemmeno, però, non prendersi mai le proprie responsabilità di fronte agli inevitabili errori che si possono commettere o darsi il permesso di mettere in atto comportamenti di sedazione della sofferenza a breve termine (cibo, sostanze, alcol, shopping…) per non sentirsi male.

Spesso le persone pensano che flagellandosi di fronte a qualcosa che di sè non piace, automortificandosi, le aiuterà a cambiare i propri comportamenti. In realtà l’automortificazione non fa altro che aumentare la vergogna interna e se la persona non può tollerare la propria imperfezione questo approccio non fa altro che finire per aumentare le strategie di evitamento della vergogna che Nathanson (1992) ha riassunto nella cosiddetta bussola della vergogna.

Nathanson ha sintetizzato che l’evitamento della emozione dolorosa di vergogna possa essere giocato in quattro diversi modi: biasimando l’altro (per non sentirsi insufficienti), biasimando se stessi (per evitare che siano gli altri a farci sentire insufficienti), ritirandosi da situazioni che possano farci sentire insufficienti, evitando o disconoscendo tutto ciò che possa farci sentire insufficienti.

Essere compassionevoli per sè significa invece riconoscere la sofferenza del momento lavorando per promuovere comportamenti responsabili e benefici sul lungo termine.
Solo in questo modo possiamo imparare a sentirci bene con noi stessi non per il valore che ci attribuiamo, ma per il fatto di essere esseri umani, quindi automaticamente degni di rispetto e di dignità a prescindere.

Letture utili

Come non consigliare Brenè Brown! Brown è una ricercatrice in Sociologia presso l’Università del Texas nonché una saggista ed oratrice. È diventata famosa per i suoi studi, i suoi speech TED ed i suoi bellissimi libri sulla forza della fragilità e sulla vergogna nei quali invita le persone a riappropriarsi della propria vulnerabilità come elemento profondamente umano, fonte di innovazione creatività e cambiamento.
I suoi tre titoli più famosi? “Osare in grande”, “La forza della fragilità” e “Credevo fosse colpa mia”.
Buona lettura!

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