
Autostima
Autostima
Negli ultimi anni moltissime persone sono approdate al primo colloquio, per valutare un percorso terapeutico, portando temi fortemente connessi al desiderio di un livello più alto di autostima. “Mi è impossibile decidere”. “Vorrei cambiare delle cose nella mia vita ma non ci riesco”. “Sono una persona insicura”. “Gli altri vanno avanti nella vita e io mi sento al palo, immobile”. “Ho paura di essere inadeguata/o”. Cerchiamo di capire, allora, cosa vuol dire autostima e cosa può significare per te.
La trappola dell’autostima
Per autostima si intende tutto quello che provi o pensi in relazione a te.
Di solito è strettamente legata ai risultati ottenuti o a quanto senti di “farcela” e di “riuscire” nei vari settori della vita.
Chi si “etichetta” con una bassa autostima:
- ha costantemente pensieri critici e giudicanti su se stessa/o;
- tende a fare fatica nel compiere scelte, rimanendo incastrata/o in situazioni spiacevoli o infelici;
- può avere tratti di dipendenza (non solo affettiva);
- si approccia alla vita con uno stile pessimistico.
Secondo Martin E.P. Seligman lo stile pessimistico consiste essenzialmente nella tendenza ad attribuire agli eventi negativi caratteristiche di permanenza (ad esempio “Non cambierà mai nulla, le cose andranno sempre male”), pervasività (se mi bocciano a un esame e mi dico “Ho fatto male perché non sono capace di fare niente”) e personalizzazione (se l’altro mi lascia è perché “Non sono una persona amabile”).
La cultura dell’autostima e l’esperienza del fallimento
Negli ultimi anni, nella nostra cultura, la questione dell’autostima è diventata una sorta di mantra collettivo: per essere felici e soddisfatti “dobbiamo coltivare un’alta autostima”. Ne parliamo in ambito terapeutico, se ne discute a scuola, gli insegnanti sono impegnati a incentivarla, i genitori si preoccupano di restituire sempre ai figli un’immagine positiva di se stessi.
Eppure, non importa quanto ci impegniamo, quanti risultati collezioniamo, quante volte ci sentiamo definire “bravi” (bravi professionisti, bravi partner, bravi genitori, bravi figli): la sensazione è di non essere mai abbastanza. Ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi, più “arrivato”, più performante, più ricco, più potente, più capace. Qualcuno che ci fa sentire piccoli e inadeguati, in un confronto sempre in perdita.
La nostra cultura è diventata così competitiva che per sentirci bene con noi stessi dobbiamo sentirci meglio degli altri, speciali, perfetti. Così alcune persone imparano a sminuire e umiliare le altre per sentirsi meglio di loro. C’è anche chi, invece, si autocritica in continuazione per evitare che lo facciano gli altri.
Il fallimento, piccolo o grande, diventa un’esperienza emotivamente inaccettabile per tantissime persone: anche se sappiamo che sbagliare è una parte dell’esperienza e che gli errori portano a un miglioramento, per tanti il fallimento non è contemplato. Per questa ragione, molte persone si bloccano e fanno fatica a entrare in contatto con esperienze di vita come scelte o cambiamenti che inevitabilmente implicano la possibilità di prendere una decisione sbagliata, che poi potrebbe diventare un rimpianto o un rimorso.
Il problema con l’idea di autostima è che ha a che fare con una valutazione di noi stessi in termini di performance e di giudizio (positivo o negativo che sia). Per mantenere alta l’autostima dobbiamo performare bene sempre, in continuo paragone con gli altri, alzando sempre la famosa asticella dei risultati personali. Quando accade di non riuscire, di sbagliare o di fallire, l’autostima scende: a quel punto il giudizio su noi stessi si accende, facendoci sentire profondamente incapaci e bloccati in una montagna russa emotiva di ansia, solitudine, depressione.
L’autostima e il paragone con gli altri: l’emozione della vergogna
Paragonarci agli altri in continuazione, in meglio o in peggio, è un’esperienza molto dolorosa, che non può mai farci sentire davvero felici e appagati: il confronto con altri è potenzialmente infinito. Alla radice della “mente valutativa” e di questo comportamento c’è un’emozione spesso poco riconosciuta: la vergogna (che di per sé non è altro che un particolare tipo di paura).
La vergogna è presente nelle situazioni di sofferenza umana molto più spesso di quanto si pensi. Non ci vergogniamo solo quando facciamo qualcosa di disdicevole o non rispettiamo un principio morale. Ogni volta che pensiamo qualcosa di negativo su noi stessi, stiamo provando un po’ di vergogna. Ci vergogniamo quando ci sentiamo giudicati da qualcuno, o ci aspettiamo di essere giudicati negativamente. La vergogna, infatti, ha a che fare con il sistema di appartenenza sociale e con la paura di essere rifiutati dal gruppo per qualcosa di noi che non piace agli altri.
Autostima o valore personale?
Nel mondo anglofono è possibile dividere il concetto di “self-worth” da quello di “self-esteem”, che hanno sfumature molto diverse. In italiano questa differenza non è così evidente, perché il termine “autostima” racchiude entrambi significati, senza distinzioni.
Self-worth
Il concetto di self-worth riguarda il senso di valore che una persona attribuisce a sé stessa in modo intrinseco, indipendentemente da risultati, successi o opinioni esterne. È una percezione stabile e radicata nel senso di dignità e accettazione di sé come essere umano. Non dipende da fattori esterni, ma è legato alla consapevolezza di avere valore semplicemente in quanto persona. Possiamo tradurlo con: valore personale, senso di valore intrinseco, consapevolezza del proprio valore.
Self-esteem
Il concetto di self-esteem, invece, si riferisce all’idea che una persona ha di se stessa in base alle proprie prestazioni, ai successi o alle conferme esterne. È più fluttuante, perché può aumentare o diminuire a seconda dei risultati raggiunti, del confronto con gli altri o delle esperienze vissute. Può essere condizionato da “quello che pensano gli altri”, dal riconoscimento sociale e dalle aspettative. Possiamo tradurlo in senso comune con autostima o stima di sé.
Sentirsi una persona che ha valore personale vuol dire sentirsi al sicuro dentro se stessi. Usare quel valore intrinseco e quella consapevolezza come perno su cui appoggiarci per compiere scelte di vita. Vuol dire credere nel potenziale di cambiamento, di crescita e di miglioramento. Essere capaci di guardare anche agli aspetti di noi che non ci piacciono, con lo stesso sguardo che riserviamo a quelli che preferiamo: è la possibilità di essere compassionevoli con noi stessi nei momenti di difficoltà. Dal punto di vista etimologico, la parola “compassione” deriva dal latino “cum patior”, ovvero provare dispiacere insieme a qualcuno.
L’autostima e la compassione verso di sé
“Compassione è l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili; di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali; di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore; e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé.” (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009)
Il concetto di compassione deriva dalle discipline meditative orientali ed è strettamente intrecciato con la mindfulness. Vuol dire addestrare una mente saggia, ovvero capace di guardare a noi stessi in ogni momento con un atteggiamento curioso, disponibile e non giudicante. Essere compassionevoli significa prima di tutto fare i conti con l’imperfezione collettiva della natura umana.
Praticare auto-compassione o compassione verso di sé vuol dire imparare a trattare noi stessi nel modo in cui tratteremmo un amico quando le cose non vanno bene, o di fronte a un fallimento. Non vuol dire cedere all’auto-commiserazione o all’auto-indulgenza.
Quando ci auto-commiseriamo tendiamo a essere immersi nei nostri problemi, a ingigantirli e a sentirci le uniche persone sofferenti nel mondo. Ci isoliamo e ci dimentichiamo che anche gli altri possono provare ciò che noi sentiamo. Al contrario, la “mente compassionevole” riconosce la realtà per quella che è: riesce a tollerare la spiacevolezza e può collocarla in un quadro più grande, in cui quell’emozione dolorosa può essere provata anche da altri e non soltanto da noi, diminuendo il senso di solitudine e di incomprensione.
Se cediamo all’auto-indulgenza, invece, vuol dire che non ci prendiamo le nostre responsabilità di fronte agli inevitabili errori che possiamo commettere. Mettiamo in atto comportamenti di sedazione della sofferenza a breve termine (ad esempio ci rivolgiamo a cibo,alcol, sostanze, shopping) per non sentire il dolore. Questa non è compassione, ma auto-indulgenza.
Perché è importante il valore personale
Di solito le persone che affermano di avere una bassa autostima hanno in realtà un basso valore personale e cercano nelle conferme esterne la soluzione al disagio e alla sofferenza. La ricerca dell’autostima, allora, è vista come un antidolorifico per un un valore personale ferito, contraddistinto da credenze personali negative (“Faccio schifo”, “Non valgo niente”, “Non piaccio a nessuno”, “Sono trasparente”, “Sono sostituibile”).
Nonostante i risultati spesso eccellenti che ottengono o di fronte a complimenti esterni, la tendenza a negare o a minimizzare i propri successi è la regola. Non c’è mai il gusto per il risultato raggiunto, ma solo una brevissima tregua dal dolore interno costante. Il mondo interiore è dominato dall’emozione pervasiva della vergogna, che accende le parti autocritiche e giudicanti.
Per cambiare le credenze interne relative al proprio valore personale (self-worth) non si può puntare tutto sull’autostima (self-esteem). Ѐ necessario lavorare sul dolore della propria storia. Ѐ importante imparare con il tempo a separare quello che si fa, da chi si è. Ѐ indispensabile sviluppare una parte adulta interna che sia compassionevole, per imparare a guardarsi e ad accogliersi in ogni sfaccettatura.
Non è un lavoro semplice, ma è possibile: se è quello che desideri per te, ti restituirà un nuovo e grande senso di appagamento, una felicità che non dipende solo dai risultati, dalle conferme e dalle circostanze esterne.
Se vuoi fissare un incontro conoscitivo puoi contattarmi per un primo colloquio psicologico, dove troverai un ascolto aperto e non giudicante.
Letture consigliate
Come non consigliare Brené Brown? Ѐ una ricercatrice in sociologia, nonché saggista e speaker. È diventata famosa per i suoi studi, i suoi TED speech e i suoi bellissimi libri sulla forza della fragilità e sulla vergogna, in cui invita le persone a riappropriarsi della propria vulnerabilità come elemento profondamente umano, fonte di innovazione, creatività e cambiamento.
- Osare in grande, Brené Brown
- La forza della fragilità, Brené Brown
- Credevo fosse colpa mia, Brené Brown